no tappi no

quando la famiglia era una grande famiglia non c’erano vite coi nani, i tappi, i puffi, le bestioline, i cosi e i draghetti. c’erano i figli. con i loro nomi e con diminutivi di familiarità di richiamo

c’erano il chiamarsi in casa: bibina, bibi, dada che era mia sorella, la mì nanona che era zia;

c’erano il ritrovarsi a tavola e chiedere e raccontare. c’era il darsi una mano e un consiglio

in tante lavoravano in casa, sarte, parrucchiere, magliaie, contadine. era l’homeworking, tanto ostaggiato poi, tanto agognato ora.

avevamo la condivisione familiare e amichevole delle mamme e delle suocere e delle cognate, che le case erano tutt’una e i figli crescevano in cortili condominiali o ancora meglio in mezzo all’aia o ai campi. “va a ciamé chi tabèch” urlavano a orari stabiliti, più per  pranzi e cene che compiti da fare, che quelli toccavano a noi e nessuno ci insegnava, ci seguiva, ci guardava. (ho visto un libro su uno scaffale che aveva come titolo imparare a giocare all’aperto – mi è preso uno sconforto!)

era tutto un giocare fuori. era un tutto social e niente social

ecco come facevano le mamme di un tempo quando non avevano facebook e non c’erano i mamma blog che  suggerivano come, dove, quanto e quale. tutti sapevano tutto di tutti, ma non era un mettere in piazza, era un esserci proprio. che a volte infastidiva anche noi ragazzine con i calzettoni lunghi far sapere a tutti che avevamo messo i primi peli, o eravamo state apostrofate dalla maestra. si litigava, urca se si litigava, mamma con nonna, zia con cognati, vicine con tutti, ma poi si faceva pace o si sopportava la convivenza.

niente social. tutto social.

il primo aprile di 22 anni fa uno spermatozoo ha vinto sugli altri. da subito ho saputo che.

e da subito, per 9 mesi,  si è chiamato obi. obi uan. per pà il maestro jedi che doveva insegnarmi la forza; per me,  l’assorbente interno che mi avrebbe protetta per nove mesi,  ma appena nato è stato il nome che gli abbiamo dato e  quando lui stesso si chiamava nène era la mia mamma a chiamarlo nène esattamente come gli dava il tou da mangiare e l’uaca da bere.

e non c’era la rete quando non voleva mangiare, non c’era internet a placare la paura di non farcela, il non capirne il pianto, chiamare la balia, che scossava le spalle e diceva ci son passate tutte. tutte.

e oggi, che lo vedo inghiottire bocconi amari di crisi, lo vedo lavorare e tenere la testa a posto pur non apprezzando la situazione, oggi che lo vedo piegarsi alla necessità di un piccolo stipendio, obbedendo alle crisi del capo, del quale non condivide modus operandi…io non so che fare. non so come aiutarlo. vorrei dirgli molla e stai calmo ci penso io a te. e invece tremo e temo di dovergli dire “tieni duro e pensa a noi” . mille euro al mese, i capelli che cadono, 22 anni. un cuore che si vede tutto nei lavori che fa. un cuore che non è guardato abbastanza da chi dovrebbe guardare anche col cuore. e una cosa vera da dire. non fate mai niente per niente perchè vi contesteranno.

e mi ritrovo a chiamarlo sparso perchè così l’ho chiamato nei miei racconti di rete perchè è un tratto caratteriale talmente evidente che sparso è perfetto. e amo il mio sparso ma  chiamiamoli figli. soprattutto in pubblico. perchè è quello che sono, che saranno, che volevamo.

ps

ho riletto il post più volte e non ci trovo un senso. ma è proprio quello che sento. quello che sono oggi.

pps:

e com’è successo che si siamo tutti separati, isolati, rinchiusi in appartamenti e socializziamo meglio sul web che col vicino? com’è successo che solo nei disastri, come il terremoto che ci scuote, ritroviamo la naturalità di aiutarci, di aiutarsi, di condividere la tenda, la tavola, il gioardino? perchè solo se non abbiamo nulla sappiamo guardare l’altro. altrimenti perdiamo tempo a quardare cos’ha e a volerlo anche noi.

la strada non è mai così dritta e io non mi sento mai abbastanza ferrata

crescere figli, essere genitori, figli, lamentiamoci, social, vicinato, vita

Commenti (7)

  • concordo sul rifiuto dei brutti surrogati dei nomi, basterebbe chiamarli semplicemente figli!
    Leggendo certi blog mi chiedo cosa ne penserebbero i diretti interessati a sapersi chiamati nani o anche peggio. Immagino la buona fede di chi scrive ma lo trovo lo stesso superficiale, spesso anche offensivo.

    Le strade dritte tolgono il fiato e la fantasia (infatti occorre l’obbligo della rotaia per non deragliare!)
    ma noi ci facciamo spaventare dal nuovo, così ci hanno insegnato e noi ancora obbediamo.

    Il problema è la solita, scarsa fiducia in noi stesse che ci fa sentire inadeguate in tante situazioni mentre, tante volte, potremmo dimostrare di essere “ferrate” eccome. Ma anche questa è una questione di grinta, di vedere oltre, di avere dei sogni da raggiungere e invece…

    Però non dobbiamo arrenderci perchè continuare a porsi domande è segnale di essere vive, come desiderare di tornare ai rapporti reali dice di avere tanto da condividere, non solo da raccontare al (quasi) nulla.

  • è un pensiero che mi torna molto spesso questo, ora è piccolo, posso proteggerlo, ma cosa troverà quando sarà grande, e come potrò aiutarlo a farcela da solo, in un mondo che diventa sempre più duro?

    Spero che salvi il cuore dei 22 anni, tuo figlio, che è la ricchezza più grande che ha. Il post ha un sacco di senso 🙂

  • socializzo sul web socializzo con il vicino, sono fatta così, è il cuore che è così. poi però a volte ti trovi davanti il muro dell’indifferenza, quella povertà negli atteggiamenti, nei pensieri ed ecco lo sgomento.
    poi però ci penso e riparto, ancora più intenzionata ad essere come sono. sono fatta così, mi piaccio così e non faccio nessuna fatica, anzi.

    ti abbraccio,
    gabri

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